TERAMO – Pubblichiamo la lettera di un nostro lettore che offre un interessante spunto per una riflessione ampia sulla cultura in questa città, partendo dall’episodio di cronaca di questa mattina, dal camion che ha travolto e distrutto un parapetto della Cattedrale di Teramo.
Non è sempre facile parlare di cultura a Teramo.
L’occasione di scrivere queste righe me l’ha offerta oggi l’ultima arrivata tra le novità post-natalizie, che probabilmente tra pandori, torroni e panettoni passerà all’aprutina storia come un banale incidente. Uno dei tanti, forse. Ma che incidente però non è.
In una Teramo che del suo passato e delle sue vestigia ha fatto troppe volte scempio, tra l’ignoranza e il pressappochismo generale, va da sé che possa passare con l’etichetta di incidente, liscio come l’olio, lo scontro fra un TIR e la nostra Basilica Cattedrale, con la frantumazione del muro laterale della scalinata principale in Piazza Orsini e il danneggiamento del leone romanico che neppure il passare dei secoli aveva sinora distrutto. Sino ad oggi. Sino al giorno dell’incidente. In pieno giorno di un lunedi di gennaio. In un centro storico controllato da un lacunoso impianto di videosorveglianza e protetto, almeno a parole, da varchi che della selezione degli ingressi hanno più il nome che la sostanza.
Incidente, si dice. L’incidente è, semmai, la contingenza dell’episodio. Ma, andando più oltre, come può essere incidente la causa di esso? Come può essere incidente il permettere, senza gli adeguati controlli, che TIR e camion possano entrare nel centro storico, il cuore di questa Città, a qualsiasi ora? In qualsiasi spazio? Con qualsiasi carico? Come può essere incidente il permettere di oltrepassare a chiunque quei varchi sempre aperti, ridotti ormai a rottami, senza che nessuno si faccia carico di obbligare il malcostume e la cattiva coscienza al rispetto di regole ed ordinanze che pure ci sono? In quale altra Città si può tollerare che un TIR arrivi a demolire una parte del Duomo? In quale altra Città il patrimonio culturale viene considerato alla stregua di un bene voluttuario, anziché di una risorsa?
E quello che più rattrista, al di là dell’episodio contingente, è che questo aprutino perseverare nell’ignoranza del nostro patrimonio, nella noncuranza, nel pressappochismo, nel qualunquismo o addirittura nella tafazziana e pervicace volontà demolitoria di tutto ciò che alla Storia ci lega, abbia germi e radici in generazioni di teramani, in coscienze distratte e in scelte politiche passate che definire disastrose è un eufemismo dettato dalla pura carità cristiana.
Una Città in cui la coscienza collettiva per i beni culturali si risveglia parzialmente da un coma farmacologico solo quando i già esigui fondi per gli eventi si esauriscono o quando un temporale distrugge parte di un muro di un Castello Della Monica che per tanti è più un peso che un lustro, o quando un TIR ci porta via un pezzo di Duomo. In una Città come questa che senso ha parlare di cultura? Che senso ha parlare di recuperi, restauri e valorizzazioni se dietro questi non c’è la coscienza che li ispira e davanti non c’è la fruizione che li rende utili? Che senso ha l’eventuale istituzione di uffici per la cultura, quando la cultura, quella delle scelte unanimi e con gli applausi finali, ha posto solo nei Consigli Comunali di second’ordine, con pochi consiglieri, poco pubblico e pochi giornalisti? Che senso ha creare specifici Assessori al ramo se nessuno muove un dito non tanto per la programmazione culturale della Città, quanto più che altro per l’organizzazione della gestione culturale? Che senso ha riempirsi la bocca di progetti di alto valore, quando qui manca chi sappia urlare ed indignarsi, come pochi sanno ancora fare, quando ci distruggono pezzi di Storia? Che senso ha fare dichiarazioni e promettere inversioni di tendenza, quando nessuno si mette in discussione per la realizzazione di un regolamento culturale che preveda linee e criteri obiettivi per l’accesso ai finanziamenti, che preveda strumenti per la scelta della qualità degli eventi, che nelle scelte sulla qualità dia sufficiente parola al tecnico, oltre che al politico?
Il Duomo è roba nostra. Il Castello Della Monica è roba nostra. Il centro storico è roba nostra. Così come lo sono le scelte sulla cultura, lo sono i Consigli Comunali dove queste scelte trovano compiutezza, lo sono gli Assessorati, gli uffici e i regolamenti. E sono roba nostra pure i varchi, le piazze, il traffico, le polemiche, gli eventi. E se tutto ciò è roba nostra, non possono non appartenerci le associazioni culturali, Teramo Nostra, l’Archeoclub d’Italia, Nuove Armonie, le scuole di danza, l’Istituto Musicale, i tanti laboratori dove la cultura nasce e si espande. Com’è possibile che non si riesca a comporre tutto questo in una ordinata tela? Com’è possibile che questa straordinaria varietà di opere, di stili e di maestranze non abbia cittadinanza, o l’abbia solo formalmente, nelle stanze delle istituzioni dove per decenni le parole d’ordine sono state quelle dell’urbanizzazione e della spicciola gestione?
Forse serve uno scatto d’orgoglio. Un primo passo che non è più rinviabile. Delle istituzioni, senz’altro. Ma prima ancora, delle nostre coscienze. Un organismo culturale che parta dal basso, una testa pensante, un coordinamento unico che non è più rinviabile. E che ci risvegli dal coma.
Fabrizio Primoli